Preparare
un panetto qualche ora prima di iniziare la lavorazione, con il lievito, 50
gr di farina e qualche manciata di acqua;
aggiungere poi la restante farina, le uova (inizialmente solo 4) poi lo zucchero e il sale, poi le altre due uova, e lavorare lentamente con l'aiuto di una
frusta elettrica usando le spirali. Lavorare a lungo.
Quando la pasta è ben
soda, incorporarvi il burro a temperatura ambiente e lavorare ancora abbastanza
a lungo (lentamente e facendo ripetute interruzioni per evitare che la frusta
surriscaldi troppo). Quando la pasta è ben liscia e setosa ed ha una consistenza
molto elastica (VERIFICARE CON LA "prova del velo"), effettuare la puntatura e pirlatura realizzando o una massa grande per il savarin o delle palline da 40 gr. Le palline vanno arrotolate ed inserite negli appositi bicchierini di alluminio (o tutto l'impasto nello
stampo unico da savarin) preventivamente imburrati. Gli stampi vanno riempiti per 1/3.
Qui di seguito un breve video per mostrare la tecnica usata dai maestri pasticcieri napoletani, che "mozzano" la pasta "strozzandola" tra indice e pollice:
Far riposare, al
chiuso, circa 1,5 ore (anche 2 se d'inverno) e comunque fino a quando la
pasta non inizia a sbordare. Cuocere in forno già caldo a 200° fino a quando i
baba' non raggiungono una colorazione nocciola chiaro. Far raffreddare, nel
frattempo sciogliere lo zucchero in acqua calda e far insaporire con le scorze
di agrumi mettervi il rum e/o il liquore di agrumi secondo il proprio
gusto ed inzupparvi i baba' nello sciroppo ancora ben caldo. Assicurarsi
che siano completamente imbevuti di sciroppo. Strizzarli per espellere il
liquido eccedente, gustarli preferibilmente il giorno successivo.
A piacere spennellare con gelatina di albicocca o neutra per favorirne la conservazione (la gelatina previene la dispersione di umidità), ma anche per renderlo più invitante e più lucido:
per una guarnizione più sontuosa si possono applicare dei mini savarin sopra un savarin grande:
Il Babà
Il
babà è senza dubbio insieme alla sfogliatella ed alla pastiera, il pilastro
potante della pasticceria napoletana. Pur essendo un dolce che fa categoria a
se stante, potremmo tranquillamente farlo rientrare nella più vasta categorie
delle paste lievitate, e più specificatamente nelle brioches, dal momento che
trattasi proprio di una brioche che viene poi sottoposta ad una tipica
inzuppatura.
Come
tutte le brioches, quindi, prevede l'impiego di farina di forza, uova, burro,
lievito compresso, e con l'unica variante che la quantità di zucchero è ridotta
al minimo dal momento che il dolce viene zuccherato dallo sciroppo con cui si
inzuppa. Come tutti i prodotti lievitati quindi necessita della formazione di
una maglia glutinica molto resistente, tale da reggere non solo la
lievitazione, ma deve anche conservare un'elevatissima capacità di idratazione
dopo la cottura. Per questa ragione la farina indicata deve avere determinate
caratteristiche (vedi pag. 4), in assenza delle quali un risultato soddisfacente
può essere seriamente compromesso.
La
tecnica indicata è la stessa dei lievitati, ossia la preparazione di
pre-lievito, la formazione di maglia glutinica con una lavorazione prolungata
di farina e uova, ed una volta formata la maglia glutinica si aggiunge il
burro. La pasta deve risultare liscia e setosa di aspetto, e estremamente
elastica. E' consigliato osservare un breve periodo di riposo, dopo il quale si
provvede a spezzare la pasta e collocarla nello stampo prescelto (bicchiere di
alluminio per il babà classico o stampino per mini savarin, p stampo grande per
ciambella per savarin grande). La pasta viene lasciata a lievitare fino al
raddoppio, proseguendo poi con la cottura a forno sostenuto per evitare
un'eccessiva asciugatura.
La
bagna si prepara facendo sciogliere tutto lo zucchero in acqua calda dove si è
lasciata in infusione la buccia degli agrumi (60/70°) ed incorporando il
liquore.
Per facilitare l'inzuppatura è
consigliabile usare lo sciroppo ben caldo (50/60°).
E'
preferibile anche preparare (e cuocere) il babà due giorni prima, ed inzupparlo
il giorno prima del suo impiego, ciò per favorire una buona amalgama dei 4
sapori fondamentali: uova, burro, lievito e rhum.
NOTA SU: SAVARIN E
BABÀ
Il savarin ha avuto questo
nome in onore di Jean Anthelme Brillat-Savarin , nato a Belley in Francia il 1° aprile 1755 e morto a Parigi nel febbraio 1826 . È comunque assai
probabile che Savarin non abbia neppur saputo di tanta attenzione, perchè ne
sarebbe stato felice.
Brillat-Savarin fu giurista ,
politico, uomo di ampia cultura e di attento studio dei suoi contemporanei.
Scrisse numerose opere di economia politica, di teoria giudiziaria, di
archeologia, ma stranamente deve la sua fama alla "Fisiologia del gusto " (ovvero meditazioni
di gastronomia trascendente).
È forse un momento felice , per questo
genere di scritti ; nello stesso anno e dallo stesso editore (A.C.F. Fayot)
Antoinin Carèrne
fa
uscire "Aforismi, pensieri e massime " sulla buona cucina.
Ed in Germania C.F. von Rumhor dà alle stampe
lo "Spirito dell 'arte culinaria" sotto il falso nome di Joseph
K6nig, che in effetti era il suo cuoco. Ma è fuor di dubbio che la versatilità
e lo spirito di Brillat-Savarin, sopravanzano di gran lunga gli autori suoi
contemporanei (del genere) anche se il libro impiega un certo tempo ad esser
preso in considerazione.
La vita di Brillat-Savarin
scorre per un lungo periodo tranquilla tra Belley e Parigi, finché viene sconvolta
dalla Rivoluzione, che nel 1792 lo induce ad espatriare, prima in Svizzera poi
negli Stati Uniti.
Rientra tre anni dopo , e placatisi
gli animi, egli viene riammesso in magistratura, dove perviene sino al
grado di Presidente di Cassazione.
Da quel momento inizia la sua attività
letteraria. La "Fisiologia del gusto " si rivela un ottimo lavoro di
uomo di buona cultura e di profondo spirito di osservazione ; con la stessa
incisività vi
si leggono
divagazioni sull'abbigliamento e sull'apparecchiare la tavola, come
sulla preparazione dell'anguilla e la cottura del rombo.
Ma è tutt'altro che un libro di
cucina; è un libro sulla filosofia della buona cucina.
L'Autore sarà stato senza dubbio un
goloso, ma era del pari, certamente, anche un esteta.
Si potrebbe esser sfiorati dal dubbio
che Brillat-Savarin sia morto di indigestione; no, egli muore di un banale
raffreddore trascurato che si è buscato ad una messa funebre.
A lui dunque, ed alla sua personalità
viene dedicato un dolce , a forma di ciambella, che ormai tutti chiamiamo
"savarin", forse senza neppure chiedersi perché. Concettualmente
però, non è un dolce nuovo, perché il suo impasto discende direttamente dal più
antico BABÀ, arricchito e guarnito.
Quindi di sfuggita accenniamo al BABÀ.
Babà è parola di origine turca, ed al di là del proprio significato letterale
di "padre", è attributo di considerazione che si esprime a persone di
grande rispetto.
Occasionalmente diremo che il capo più
occidentale dell'Anatolia è Capo Babà; ma questo non c'entra niente!
Orbene agli inizi del 1700, il re di
Polonia Stanislao I, aveva tra
i suoi cuochi un giovane pasticciere, proveniente dall 'Anatolia, di nome Kara,
che gli aveva inventato
e dedicato un dolce a forma conica, come il copricapo turco.
Dolce inzuppato e profumato , come
tutti i dolci anche parzialmente orientali. Quando Stanislao Leszczynski, nel
1735, venne spodestato dal suo trono, dovette
rifugiarsi nel piccolo Ducato di Lorena, dove riprese in tono minore la sua vita di corte. Qui il
babà veniva servito nei suoi
pranzi, qui era conosciuto e consumato e da qui esportato
verso Parigi.
Si inzuppava allora di sciroppo e di
cognac; l'uso di umettarlo con rum è assai più recente. Quanta parte di ciò sia
storia e quanta leggenda, non sapremmo precisare; siamo venuti a conoscenza di
queste notizie e le trasmettiamo in piena buona fede.
D'altra parte in cose ben più
importanti di queste, la leggenda entra a far parte della storia, con santa
pace per tutti.
IL BABA’: Tra storia e leggenda, dalla
musicalità della parola alla piacevolezza del palato
I napoletani hanno il pregio di dare, col loro dialetto, musicalità ad una
frase, a un discorso. Il dialetto partenopeo è l’unico linguaggio regionale così adatto alla musica: le
parole si accorciano e si allungano seguendo le note, si personalizzano
facilmente, hanno mille significati a seconda del contesto in cui sono
inserite. Questo vale anche per il cibo, la principale preoccupazione
quotidiana con cui Napoli ha dovuto fare i conti dal ’600 a tutto il
Dopoguerra, sino agli anni ’60, dal precapitalismo alla società postindustriale
quando alla povertà si è passati al benessere tale da rendere disponibile più
facilmente il cibo per la sopravvivenza fisica senza angoscia.
I napoletani hanno
innumerevoli espressioni in cui il carattere è associato ad uno stato fisico
più che mentale, alcune anche un po’ volgari ricche di sfumature la cui
traduzione in italiano, a volte, non rende spesso esattamente l’idea di ciò che
in realtà si vuole rappresentare. Ad esempio, “si nu’ babbà” detto ad una
persona indica qualcuno dal carattere dolce, disponibile, oppure bravo
nell’eseguire qualcosa di particolarmente difficile, o, ancora, si può usare
per ringraziare di un regalo o di un’attenzione. Ma non solo una persona, anche
una cosa può essere “nu’ babà”, magari
un oggetto particolarmente bello e funzionante.
La parola babà ha,quindi,
un significato estremamente positivo apprezzato in quanto capace di riflettere
i pregi migliori: l’equilibrio dei sapori e di consistenza con cui si esprime
questo dolce, la sua praticità e, al tempo stesso, l’estrema pazienza richiesta
da ben tre lievitazioni nella ricetta classica.
Il babà è, a pieno
titolo, un "dolce di città" perché necessita sapienza consolidata per
prepararlo, una profonda conoscenza dei tempi di cottura, di lavorazione e di
lievitazione rapportati alla temperatura esterna e all’umidità presente
nell’aria, proprio come la pizza. È dolce da città perché da passeggio: si
entra, si prende e si mangia continuando la passeggiata, con un piattino e
forchetta o usando le mani e dunque, a dispetto delle sue origini,ed è molto
"democratico", perché mette sullo stesso piano chi ozia e chi lavora,
chi è ricco e chi è povero.
Eppure proprio come la
pizza, la pasta, il caffè, il babà non è nato alle pendici del Vesuvio ma nel
freddo Nord Europa e, mentre la stragrande maggioranza dei dolci nasce nella
civiltà contadina, il babà è di origine reale, frutto di un’idea di Stanislao
Leszczynski, due volte re di Polonia, duca di Lorena e suocero di luigi XV.
Leggenda vuole che Stanislao, esule in Francia, trascorresse il suo tempo
dilettandosi in cucina e apportando bizzarre varianti ai dolci, la sua
passione, della tradizione austriaca, come il kugelopf, mezzo panettone e mezzo
brioche, apportando nuove e più ricche elaborazioni con l’impasto lievitato tre
volte e sbattuto per ottenere una pasta più leggera, dandogli la forma della
cupola di Santa Sofia e il nome di Ali Babà, il protagonista de “Le Mille e una
notte”. In origine era pieno d’uvetta di Corinto e di Smirne ed era di pasta
gialla perché arricchito di zafferano.
Un altro salto di qualità
è la decisione della bagna, necessaria per sostenere la morbidezza del dolce
altrimenti destinato rapidamente a pietrificarsi in poche ore, con sciroppo di
zucchero e il rhum giamaicano, l’ultimo, all'epoca, dei benefici importati
dall’Oltreoceano.
Il dolce venne così
introdotto a corte e, da qui, si diffuse successivamente in tutta Europa,
benché la sua maggiore diffusione si ebbe, in primis, a Parigi. Qui fu
introdotto, all’inizio dell’Ottocento, dal famoso cuoco e sublime pasticciere
polacco Sthorer, a Luneville con un proprio laboratorio a rue Montorgueil,
ancora oggi esistente al numero 52. Qui si creò il babà a forma di fungo o
cappello di cuoco così come sono giunti fino a noi. Più tardi, Jean Anthelme
Brillat-Savarin regala ai fratelli Julien il babà a forma di ciambella nel cui
centro immergere la frutta per il loro laboratorio sul boulevard St.Honoré:
eliminata l’uvetta, aggiunto il burro, una spennellata di marmellata di
albicocche per salvare la bagna più a lungo ed è così che da Ali Babà si passa
a Babà.
Il Babà è simbolo del
filo diretto con cui Napoli è sempre stata legata a Parigi negli ultimi tre
secoli. Un legame nato precisamente quando Maria Antonietta sposa Luigi XVI
mentre Maria Carolina si lega a soli sedici anni nel 1768 per procura a
Ferdinando IV di Borbone. Nasce così l’epopea del gattò, della besciamella, del
gratin, degli sciu e di quei termini francesi con cui la cucina napoletana
conosce l’influenza d’Oltralpe. Questo dolce impiegherà quasi settant’anni per
arrivare a Napoli. Le prime attestazioni documentate risalgono all’inizio
dell’Ottocento, in un ricettario misto di piatti francesi e napoletani.
L’insediamento ufficiale è nel manuale dell’Angeletti, cuoco di Maria Luigia di
Parma (1836). Per molto tempo resterà, quindi, un dolce delle cucine
aristocratiche e solo dopo l’Unità d’Italia arriverà nelle pasticcerie, privato
definitivamente di una componente (i canditi), aromatizzato e bagnato. Pare che
i grandi signori napoletani, infatti, sin dalla fine dell’Ottocento, spedissero
i loro cuochi a Parigi, per erudirli sulle haute cuisine. E probabilmente fu
proprio uno di questi cuochi che importò il babà a Napoli, conferendogli quella
forma e determinando quelle particolari dosi di sciroppo e liquore che hanno
fatto di questo dolce un prodotto caratteristico della pasticceria partenopea.
L’ultima moda è il babà
al limoncello o alla crema di limone, nato a Capri, un infuso capace di
prendere il posto rapidamente del rhum e di aprire così la disputa fra
tradizionalisti e innovatori, valorizzando l’agrumato, la necessaria acidità
per equilibrare ulteriormente nel babà la sensazione di dolce, a volte
zuccherosa quando il rhum è di qualità scadente. Ecco allora la freschezza
regalata dagli agrumi e, nel caso del limoncello, dagli oli essenziali della
buccia del limone. Una nuova formula anche per il rilancio del dolce...
E non poteva mancare la poesia in dialetto partenopeo
'O babà
Primma ‘e Natale giravano accussì pe’ Napule,
San Giuseppe ‘a Madonna e ‘o Bammeniello,
doppo magnato ‘a cantina, pasta e fasule
cu quatte cape ‘e sasicce e cu ‘e friarielle...
se vuttajeno ‘e spicce ‘e spicce dint’‘a na
pasticceria
“Peppì tu ‘o ssaje pe' chisti dolce io, jesco
impazzì,
spicialmente p’‘a pasticceria napulitana...è na
fantasia
tu piglià chello che vuò j' assaggio stu babà!Me fà
murì!
Peppì passame nu sarvietto me stò spurcanno
chistu babà è chino‘e ruhm…stà scurrenno,
e comm’ è sapurito ‘e ddete me stò alleccanno!
“ Marì ma che faje ‘a ggente te stà guardanno!”
E cche me ne ‘mporta chistu sfizio m’ha dda passà
so’ duimila anne sempe ‘e stessi ccose...uffà!
Peppì Peppì… nun veco ‘o Bammeniello addò stà?
“Marì stà llà, se stà magnanno pur’Isso nu babà!”
Peppì chist’anno ‘e Rre Magi , saje che te voglio
dì?
‘o posto ‘e purtà : Oro,‘ncienzo e birra...(‘a
mirra Marì!)
‘e facimmo purtà nu paro ‘e guantiere ‘e chisti
babà…
p’‘a Madonna tutto ‘o Presepio avimma fà cunzulà!
Altre ricette:
babà 1
·
farina 180 g
·
burro 125 g
·
lievito di birra 20 g
·
zucchero 1 cucchiaio
·
sale 1 pizzico
·
panna liquida 50 g (da incorporare dopo il burro)
·
uova n° 3
babà 2 (P. Fulgente)
·
farina 1000 g
·
burro 300/350 g
·
lievito di birra 50 g
·
zucchero 80 g
·
sale 20 g
·
uova intere (18-20 pezzi) 1000 g
babà 3 (A. Cafiero)
·
farina "0" 250 g
·
burro 80 g
·
lievito di birra 20 g
·
zucchero 25 g
·
sale 1 pizzico
·
uova intere n° 5