dispensa distribuita in occasione dell'evento di Sabato 21 giugno 2014
accademia luce Smeg
via G. Di Maria, 73 - Palermo
in collaborazione con
"Roma Cash" via Enrico
Toti, 118 - Palermo. tel. e fax. 0916573251
"Forniture
Luigi Guidera"via Calderai,
57 - Palermo. Tel. e fax. 0916175336
"In poltronissima" Via Michele Amari 6 90139 PALERMO Tel. 091611
50 50
Incontriamo la pasticceria napoletana
percorso di conoscenza delle ricette di base e relative tecniche delle più note preparazioni dolciarie della tradizione napoletana
ARGOMENTI
TRATTATI DURANTE IL PERCORSO:
ü
la
pasta frolla base e napoletana
(e sue applicazioni in: crostate "in bianco", crostate di confettura
di frutta, sfogliatella frolla)
ü la crema pasticciera
ü il babà
ü la pastiera
LA PASTA FROLLA
Per la composizione della pasta frolla
esiste una elementare regoletta che tutti conoscono,
ma che nessuno rispetta.
La regola è condensata nella formula :
3/2/1
tre parti di farina due parti di burro
una parte di zucchero. Quindi
semplificando:
Farina di frumento g 1000
Burro g 660
Zucchero g 330
Setacciare la farina sul tavolo di
lavoro e raccoglierla a fontana.
Amalgamare con la farina il burro
lievemente mollificato e poi aggiungere lo zucchero, incorporando il tutto in
una massa omogenea che non ha bisogno di un lungo lavoro, perché non deve
acquistare elasticità.
Aver cura di non lavorare
eccessivamente anche parchè lo stesso calore delle mani dell'operatore potrebbe
far affiorare il grasso del burro, danneggiando il risultato.
Porre la pasta frolla in frigorifero a
riposare per una buona mezz'ora. Ripresa la pasta, stenderla col matterello
allo spessore desiderato per il successivo utilizzo.
E qui il capitolo pasta frolla
potrebbe risultare concluso.
Nella pratica però abbiamo potuto
rilevare come questa aurea regoletta non viene pressoché mai rispettata ed ogni
operatore e chiunque scriva di queste cose propone aggiunte o varianti di
proporzioni.
L'aggiunta
più consueta è quella delle uova o dei tuorli, di insaporenti, di acqua e di
lieviti.
"Incuriosito,
ho voluto svolgere un "indagine" sommaria, e trascurando le
numerosissime ricette che possono ritrovarsi nei vari siti, o blog di cucina e
nei numerosissimi testi di pasticceria, sottopongo all'attenzione del lettore,
a titolo di mero esempio, un risultato
pari a 64 ricette diverse di frolla nel
solo libro di Ortona-Casati "259
Impasti" edito da Chiriotti."
* *
*
RICETTA BASE:
ü 900
gr farina debole
ü 100
gr amido
ü 400
gr materia grassa (burro, strutto o entrambi al 50%)
ü 400
gr zucchero
ü 4
uova
ü una
presa di sale
ü 10
gr di polvere lievitante (facoltativo)
La pasta frolla moderna è una delle basi della
pasticceria più diffusa al mondo. Essa trova innumerevoli applicazioni, perché
altrettanto innumerevoli sono le sue possibili versioni. Gli ingredienti
principali sono 4: farina, uova, materia grassa, zuccheri.
In realtà ciascuno di questi 4 elementi può essere
sostituito con altri ingredienti analoghi, ed in taluni casi anche eliminato
del tutto.
Già solo per questo, esistono centinaia di versioni
di p. f., inoltre se consideriamo che il rapporto fra di essi può essere
variato, se ne deduce che le possibili combinazioni diventano migliaia.
Per questa ragione si ritiene prudente evitare una
lunga quanto inutile lista di ricette, peraltro facilmente reperibili (e che
comunque sono incluse nella presente dispensa), e concentrare lo sforzo
sull'approfondimento della conoscenza degli ingredienti, sulle loro reazioni
tecniche e di conseguenza sulle tecnologie che determinano differenze anche
sostanziali del prodotto finito.
la farina
E' il principale ingrediente della p.f. Si adopera
quella comune di grano tenero, ma esistono diecine di versioni che ne prevedono
la sostituzione parziale con altri sfarinati per dar luogo a prodotti diversi.
Nella p.f. di base, che deve essere friabile e scioglievole, la farina deve
avere un bassissimo contenuto proteico. Le proteine, infatti, in presenza di
liquidi si trasformano in glutine e questo rende la pasta tenace, con
conseguente risultato di una p.f. dura e compatta. Si devono prediligere quindi
farine con un valore di W basso, tra 90 e 160. Per garantire un basso valore
proteico è consigliabile anche sostituire parte della farina (10-20%) con un
amido (riso, mais). Inoltre la lavorazione deve essere rapida e breve. Ed è
indispensabile un periodo di sosta in frigo di almeno 2 ore, per rilassare la
pasta e far riprendere tonicità alla materia grassa in esso contenuto.
Le uova
Rappresentano la parte liquida dell'impasto. Possono
essere adoperate intere, solo tuorli, solo albumi, o con tuorli sodi
setacciati. Giova sapere a tal fine che le uova oltre a conferire acqua,
apportano grassi (tuorli), quindi conferiscono friabilità; e proteine (albumina
dell'albume), che rendono la pasta elastica e asciutta perché l'acqua in esso
contenuta evaporando in cottura favorisce in parte la lievitazione meccanica.
La p.f. con tuorli cotti è una pasta frolla cosiddetta "speciale".
La materia grassa
E' un ingrediente indispensabile per ottenere una
buona friabilità. Il prodotto più usato è il burro, ma esistono numerose
ricette che contemplano l'uso di margarina, strutto, e/o olio di oliva. Il
burro conferisce aroma e gusto tipico, come del resto l'olio di oliva. La
percentuale del burro sulla farina va dal 30 % al 70% delle frolle comuni e dal
50% al 80 % delle frolle montate. Al di sotto di questi parametri avremmo un
prodotto asciutto e poco friabile, mentre se si superano, la frolla potrebbe
risultare poco gradevole al gusto, di difficile lavorabilità e tendente allo
sbriciolamento dopo la cottura.
Lo zucchero
Oltre a dolcificare l'impasto, anche lo z. bianco ha
delle importanti proprietà tecnologiche, esso infatti determina la croccantezza
della p.f. ed una colorazione invitante, per effetto della sua
caramellizzazione in cottura. Anche lo zucchero può essere sostituito in tutto
in parte con lo zucchero a velo, con lo zucchero di canna grezzo o col miele,
con risultati ovviamente diversi. Ed anch'esso deve rientrare necessariamente
entro certi parametri per evitare inconvenienti tecnici. La percentuale
consigliata sta tra il 25 % ed il 60% sulla farina. Lo z. semolato assorbe più
liquidi dello zucchero a velo. E la frolla viene denominata "fine" se
viene usato lo z. a velo.
Nella prassi si rilevano anche altri ingredienti che
possono essere ritenuti secondari, in quanto non influiscono particolarmente
sul risultato finale. Tra essi ricordiamo gli aromi, la classica vaniglia, o la
grattugia di bucce di agrumi, e la cannella. Poi abbiamo il sale, in
modestissima quantità nelle frolle dolci, serve ad esaltarne il gusto e la
sapidità. Infine il lievito chimico, baking, ammoniaca o bicarbonato. Aiuta lo
sviluppo in cottura per una frolla più "aperta". Inutile dire che ci
sono controindicazioni legate ad un uso eccessivo (sensazione pungente di
"salato"), mentre va tenuto conto che la frolla troppo lievitata
tende ad invecchiare prima perché l'alveolatura aperta favorisce il circolo di
aria e conseguente asciugatura accelerata del prodotto.
Metodi
di lavorazione della frolla (tratto da
"peccati di gola" di L. Montersino)
Metodi
di impasto
A prescindere dal
tipo e dalla quantità di ingredienti utilizzati per la preparazione della pasta
frolla, esistono vari metodi di impasto, che hanno in comune un unico
passaggio: lavorare il meno possibile la farina con gli ingredienti che
contengono acqua (burro e uova). I procedimenti si distinguono in:
•
metodo classico
•
metodo sabbiato
•
metodo montato
Metodo classico
Questo metodo consiste nel
lavorare con la foglia in planetaria lo zucchero con il burro (sempre alla
giusta temperatura), miscelandolo senza montarlo. Quindi, vanno aggiunte le
uova poco alla volta, in modo da farle completamente assorbire al composto di
burro e zucchero; solo a questo punto vanno uniti gli aromi e la farina,
necessaria semplicemente ad assorbire la parte acquosa della preparazione
(costituita da burro e uova).
Metodo sabbiato
Con questo metodo, la farina
viene miscelata con il burro, al fine di ottenere un composto non compatto ma
"sabbioso", in modo che il grasso rivesta le molecole di amido e le
proteine della farina (glutine), mantenendole isolate una dall'altra e
impermeabilizzandole. Così, si rendendo meno vulnerabili all'umidità
dell'impasto anche dopo la cottura, ossia legano meno tra di loro, formando
tanti piccoli agglomerati a sé stanti. L'impasto di farina e burro, non avendo
costituito una massa compatta, darà un risultato di friabilità nettamente
maggiore rispetto al metodo tradizionale. Il successivo passaggio consiste
nell'aggiungere lo zucchero, seguito dalle uova che, con la loro alta
percentuale di acqua, riescono a far legare il tutto restituendo quel minimo di
compattezza alla pasta, in modo da poterla stendere. Non appena le uova si
saranno amalgamate all'impasto, è necessario spegnere immediatamente la
planetaria.
A prescindere dal metodo di impasto utilizzato, il successivo
passaggio obbligatorio è il riposo in un
ambiente freddo. Se la frolla deve essere usata subito conviene optare per l'abbattitore. E' necessario stendere
l'impasto tra due fogli di carta forno a uno spessore di 4 cm, in modo da
permettere un raffreddamento più uniforme. La frolla, riposta nell'abbattitore
a -40° C, sarà pronta in 10 minuti. Se, invece, non deve essere subito
utilizzata, conviene riporla in frigorifero: dopo aver formato un panetto con
la pasta, bisogna ricoprirlo con la pellicola e lasciarlo in frigo per circa
3/4ore. Il freddo si distribuirà uniformemente all'interno dell'impasto,
permettendo alla frolla di raggiungere la temperatura ideale per la
lavorazione. Dopo averla tirata fuori dal frigorifero, la frolla avrà la
temperatura ideale di utilizzo, ma non la consistenza, che le verrà restituita,
lavorandola per un minuto in planetaria (utilizzando il gancio), oppure
impastandola con le mani su un piano, spolverato precedentemente di farina.
Metodo montato
Se si vuole utilizzare la frolla
con il sac à poche, per la realizzazione di frollini o pasticceria secca,
conviene utilizzare il metodo della "frolla montata". Si lavora il
burro (a circa +13° C), con la frusta in planetaria, fino a ridurlo in pomata;
quindi, si ferma la macchina e si aggiunge lo zucchero a velo, opportunamente
setacciato. Si rimette in moto la macchina al minimo della velocità, fino a che
il burro non viene assorbito completamente (questo per evitare che lo zucchero
voli via dal caldaio della planetaria), si aumenta la velocità, senza portarla
al massimo, e si fa montare bene il tutto, finché il burro e lo zucchero non
diventano una soffice crema di colore bianco. A questo punto, si aggiungono le
uova sbattute, possibilmente a temperatura ambiente, facendole assorbire poco
alla volta, in modo da creare una crema omogenea; in ultimo, va incorporata la
farina, che verrà aggiunta solo dopo aver sostituito la frusta con la foglia.
Quando quest'ultima si è amalgamata al resto degli ingredienti, si spegne la
planetaria. A differenza degli altri due metodi, non bisogna farla riposare in
frigorifero, ma va usata subito. La si lascerà riposare solo dopo averle dato
forma di frollino o dopo averla utilizzata per rivestire gli stampi. Il riposo
è importante per non far perdere le forme ai frollini, in quanto il freddo del
frigorifero o dell'abbattitore permette di stabilizzare il burro. Esistono
ricette particolari di frolle montate, dove una parte di tuorli crudi viene
sostituita con tuorli sodi, rendendo il prodotto finale estremamente fine,
quasi vellutato. Ma, in tal modo, ci avventuriamo in tipologie di frolle
speciali, che non fanno parte delle basi più comuni.
La crema pasticciera
(tratto da
"peccati di gola" di L. Montersino)
RICETTA BASE:
ü 800
gr latte intero fresco
ü 200
gr panna
ü 300
gr tuorlo
ü 300
gr zucchero
ü 35
gr amido di mais
ü 35
gr amido di riso
ü 1
bacca di vaniglia
In pasticceria è
considerata la regina delle creme. Con essa si realizza la maggior parte delle
farciture di torte classiche e mignon e, quando è alleggerita con la panna,
diventa un prodotto insostituibile per ogni pasticciere. Gli ingredienti che la
compongono sono molteplici; c'è chi la prepara con latte, zucchero, tuorli,
farina e aromi, chi con polvere per crema, chi con latte, panna, zucchero e
amido, chi fa una miscela di amidi. Naturalmente, devono essere sempre
freschissimi e di ottima qualità. In questo tipo di preparazione si verifica, a
carico delle proteine, un coagulo che forma una specie di rete, nelle cui
maglie vengono trattenuti tutti i principi nutritivi. La coagulazione è
favorita anche dalla presenza dell'amido contenuto nella farina che, grazie al
calore, si trasforma in salda. In genere, queste creme risultano più soffici
per la presenza dello zucchero, che diminuisce la rapidità della coagulazione
proteica. Quanto più zucchero si aggiunge, tanto minore è la velocità di
coagulazione. Volendo, si potrebbe abbondare con lo zucchero, in modo da
ritardare completamente la coagulazione dell'uovo, un processo dovuto alla
presenza delle proteine. In questo caso, però, la crema sarebbe immangiabile
perché troppo dolce. Anche l'aggiunta di bucce di agrumi a scopo aromatizzante
e il rimescolamento continuo influiscono sulla morbidezza della crema, perché
così facendo si spezza la rete proteica e il prodotto finale risulta più o meno
ben fitto ma non solido, come quello della crema di caramello, che non subisce
alcuna manipolazione. Le temperature che determinano un inizio di vischiosità
degli amidi sono:
-amido di mais da
72°C a 84°C;
-amido di riso dai 76 "C a 92°C;
-farina di frumento
da 81 "C a 94°C.
All'esame visivo e
gustativo, la crema pasticciera dovrebbe avere le seguenti caratteristiche:
-aspetto esterno: la
crema ha una superficie liscia, un aspetto lucido e un colore giallo uovo
tenue;
-aspetto interno: la
crema ha una struttura uniforme, cremosa e liscia, esente da sineresi (ossia parziale
cedimento dell'acqua); qualità sensoriali: la crema ha un sapore leggero di
vaniglia, non oppone resistenza al palato, ha un aroma chiaramente
distinguibile e non è farinosa.
Ingredienti
principali
Il latte: si
utilizza principalmente quello intero di alta qualità; è comunque possibile
usare anche il latte in polvere intero reidratato con l'acqua.
Il
tuorlo: la sua coagulazione va da 62°C a 65°C, aspetto da tenere presente
per la cottura del prodotto. Infatti, più tuorli si utilizzano, meno sarà
necessario cuocere il prodotto, per evitare il sapore sgradevole di uovo cotto
dovuto alla parte zolferina del tuorlo che, denaturandosi, dà all'uovo un
cattivo sapore. Per ottenere una buona crema la quantità di tuorli in 11 di
latte può variare da 8 a 25 (da 160 g a 500 g per 1l di latte) e, di logica,
più aumentano i tuorli meno amido si dovrà aggiungere alla ricetta (coagulandosi,
i tuorli fanno rapprendere la crema). Di contro, sarà necessario aggiungere più
zucchero (come già spiegato prima, lo zucchero neutralizza la capacità di coagulazione
dei tuorli; di conseguenza, si deve aumentare la sua quantità per tenerla sotto
controllo e non far rapprendere troppo velocemente i tuorli). Il tuorlo aumenta
la conservazione della crema grazie alla lecitina, che avvolge le particelle di
grasso ed evita l'ossidazione. L'azione conservante è maggiormente
accentuata dallo zucchero. Inoltre, l'abbondante presenza di tuorli fa sì che,
in percentuale, nella preparazione ci sia meno acqua, garantendo in questo modo
una conservazione migliore.
Lo
zucchero: oltre a dolcificare la crema, ha un'azione conservante. La sua
dose per 11 di latte va dai 250 g ai 500 g; di solito, si miscela con l'amido
prima di incorporare i tuorli, oppure si mescola con i tuorli e, in un secondo momento,
si aggiunge l'amido. Questa preparazione deve essere fatta velocemente, in
quanto lo zucchero è solubile in acqua e, se viene lasciato a contatto con i tuorli
senza essere amalgamato, i cristalli "acquistano" la poca acqua contenuta
nei tuorli. Questi ultimi, non avendone abbastanza per sciogliere i
cristalli di zucchero,
provocano
un assorbimento che "plastifica" le proteine dei tuorli, rendendole
gommose e insolubiIi, anche quando, in seguito, si unisce il latte. Così
facendo, si prepara una crema ricca di puntini piccolissimi. Questo non succede
se i tuorli e lo zucchero vengono sbattuti insieme con
una
frusta, in modo tale che lo zucchero si mescola ai tuorli e si scioglie
parzialmente dando vita all'effetto anticoagulante.
La
farina: si utilizza per fare addensare la crema, da sola o insieme agli
amidi. La sua temperatura di viscosità va da 81°C a 94°C.
L'amido di
mais: si usa per fare addensare la crema, da solo o unito ad altri amidi
o alla farina, la sua temperatura di viscosità va da 72°C a 84°C.
L'amido di
riso: si aggiunge per fare addensare la crema, da solo o insieme ad
altri amidi o alla farina; la sua temperatura di viscosità va da 76°C a 92°C.
Le uova: si
possono utilizzare intere ma non sono molto indicate per una crema di qualità.
Il loro apporto di acqua è notevole e, quindi, minano la conservazione del prodotto.
La panna: con il
suo apporto di grasso e una minore quantità di acqua, può sostituire una parte
di latte,
migliorando il gusto del prodotto e potenziando la conservazione. La sua dose si aggira
sui 300 g per 700 g di latte.
Il burro:
aggiunto alla ricetta, dona alla crema una maggiore cremosità,
migliora il gusto e il grado di conservazione. La sua
proporzione varia dal 3% al 5% sul totale del peso della preparazione. La crema
pasticciera si conserva in frigorifero a 4°C; di conseguenza il burro, a
contatto con il freddo si rapprende e fa rassodare anche la crema, donandole una buona
cremosità. Inoltre svolge un'azione conservante avvolgendo con il suo grasso le
particelle degli altri ingredienti rendendoli meno vulnerabili all'ossidazione.
Se si dovesse presentare, infatti, argina parzialmente la sineresi (ossia la perdita di
liquido).
La vaniglia: i
baccelli devono essere gonfi, morbidi e con una buccia sottilissima, in modo da
poter ricavare il massimo numero di semi. Per scegliere un baccello, provate a
schiacciarlo leggermente tra le dita. Deve risultare soffice e abbastanza
elastico da potersi arrotolare
intorno
al dito senza spezzarsi. I migliori in assoluto sono i baccelli
ricoperti da una leggera polvere bianca, costituita dalla vanillina che è trasudata
dall'interno. La vaniglia va aggiunta alla crema nella quantità di un baccello
per ogni litro di latte. Di solito, si apre a metà il baccello con un coltello e
si raschiano via i semi, che vengono aggiunti al composto di tuorli, zucchero e
amido. Il baccello vuoto si mette a bollire con il latte.
Alcuni problemi che possono
riguardare la crema
Crema bruciata sul fondo del tegame:
accade quando manca il pastorizzatore e si lavora la crema
a fuoco diretto. Le cause possono essere una fiamma troppo violenta} un'azione
manuale (con la frusta) insufficiente o un tegame poco adatto (per esempio di
acciaio inox senza il triplo fondo).
Formazione di grumi:
avviene quando, aggiungendo separatamente gli amidi e/o la farina, non si
sbatte energicamente con la frusta il composto, oppure quando la crema
pasticciera rotta viene tenuta scoperta durante il raffreddamento, senza essere
mossa; in tal caso, si forma una crosta abbastanza spessa che difficilmente si
riamalgama.
Perdita di consistenza e formazione di
liquido (sineresi): accade quando la crema non è stata
cotta abbastanza e quindi, gli amidi non hanno fatto in tempo ad agglutinarsi.
Al contrario, una cottura troppo lunga fa perdere la capacità
"legante" degli amidi.
Sensazione di farinosità sul palato: avviene
quando la cottura della crema è insufficiente
e
quando si usa solo la farina.
Le
tecniche sono varie.
La
più diffusa consiste nel montare tuorlo e zucchero, si incorporano poi gli
amidi senza formare grumi. Su questo composto poi si versa filo il latte portato a bollore con la panna.
Il composto così ottenuto si rimette sul fuoco e si riporta alla temperatura di
85° per favorire la coagulazione del tuorlo e la cottura degli amidi.
Un'altra
tecnica consiste nel montare zucchero e tuorlo, incorporare gli amidi (come
avviene per il pan di spagna) e versare questo composto nel latte portato a
bollore con la panna. In questo modo la massa composta da tuorlo zucchero ed
amido rimane a galla. Il calore sprigionato dal latte coagula la massa che è
rimasta in superficie. Il vantaggio di questa tecnica consiste nell'evitare il
contatto della parte solida col fondo della pentola per prevenire possibili
bruciature degli amidi.
La
terza tecnica consiste nello sciogliere gli amidi nel latte e panna con metà
dello zucchero e cuocere come per una besciamella (80°) a questo punto si versa
il composto di tuorli e il rimanente zucchero e si riporta il composto a 80°.
Il Babà
RICETTA BASE:
ü 500
gr farina molto forte (MANITOBA)
ü 6
uova
ü 25
gr lievito compresso (di birra)
ü 90
gr acqua
ü 50
gr zucchero
ü 1
presa di sale
ü 150
gr burro
bagna:
ü 1 l
acqua
ü 700/800
gr zucchero
ü buccia
di un paio di agrumi (rigorosamente biologici)
ü 80/100
gr rhum per pasticceria a 70°
Il
babà è senza dubbio insieme alla sfogliatella ed alla pastiera, il pilastro
potante della pasticceria napoletana. Pur essendo un dolce che fa categoria a
se stante, potremmo tranquillamente farlo rientrare nella più vasta categorie
delle paste lievitate, e più specificatamente nelle brioches, dal momento che
trattasi proprio di una brioche che viene poi sottoposta ad una tipica
inzuppatura.
Come
tutte le brioches, quindi, prevede l'impiego di farina di forza, uova, burro,
lievito compresso, e con l'unica variante che la quantità di zucchero è ridotta
al minimo dal momento che il dolce viene zuccherato dallo sciroppo con cui si
inzuppa. Come tutti i prodotti lievitati quindi necessita della formazione di
una maglia glutinica molto resistente, tale da reggere non solo la
lievitazione, ma deve anche conservare un'elevatissima capacità di idratazione
dopo la cottura. Per questa ragione la farina indicata deve avere determinate
caratteristiche (vedi pag. 4), in assenza delle quali un risultato soddisfacente
può essere seriamente compromesso.
La
tecnica indicata è la stessa dei lievitati, ossia la preparazione di
pre-lievito, la formazione di maglia glutinica con una lavorazione prolungata
di farina e uova, ed una volta formata la maglia glutinica si aggiunge il
burro. La pasta deve risultare liscia e setosa di aspetto, e estremamente
elastica. E' consigliato osservare un breve periodo di riposo, dopo il quale si
provvede a spezzare la pasta e collocarla nello stampo prescelto (bicchiere di
alluminio per il babà classico o stampino per mini savarin, p stampo grande per
ciambella per savarin grande). La pasta viene lasciata a lievitare fino al
raddoppio, proseguendo poi con la cottura a forno sostenuto per evitare
un'eccessiva asciugatura.
La
bagna si prepara facendo sciogliere tutto lo zucchero in acqua calda dove si è
lasciata in infusione la buccia degli agrumi (60/70°) ed incorporando il
liquore.
Per facilitare l'inzuppatura è
consigliabile usare lo sciroppo ben caldo (50/60°).
E'
preferibile anche preparare (e cuocere) il babà due giorni prima, ed inzupparlo
il giorno prima del suo impiego, ciò per favorire una buona amalgama dei 4
sapori fondamentali: uova, burro, lievito e rhum.
NOTA SU: SAVARIN E
BABÀ
Il savarin ha avuto questo
nome in onore di Jean Anthelme Brillat-Savarin , nato a Belley in Francia il 1° aprile 1755 e morto a Parigi nel febbraio 1826 . È comunque assai
probabile che Savarin non abbia neppur saputo di tanta attenzione, perchè ne
sarebbe stato felice.
Brillat-Savarin fu giurista ,
politico, uomo di ampia cultura e di attento studio dei suoi contemporanei.
Scrisse numerose opere di economia politica, di teoria giudiziaria, di
archeologia, ma stranamente deve la sua fama alla "Fisiologia del gusto " (ovvero meditazioni
di gastronomia trascendente).
È forse un momento felice , per questo
genere di scritti ; nello stesso anno e dallo stesso editore (A.C.F. Fayot)
Antoinin Carèrne
fa
uscire "Aforismi, pensieri e massime " sulla buona cucina.
Ed in Germania C.F. von Rumhor dà alle stampe
lo "Spirito dell 'arte culinaria" sotto il falso nome di Joseph
K6nig, che in effetti era il suo cuoco. Ma è fuor di dubbio che la versatilità
e lo spirito di Brillat-Savarin, sopravanzano di gran lunga gli autori suoi
contemporanei (del genere) anche se il libro impiega un certo tempo ad esser
preso in considerazione.
La vita di Brillat-Savarin
scorre per un lungo periodo tranquilla tra Belley e Parigi, finché viene sconvolta
dalla Rivoluzione, che nel 1792 lo induce ad espatriare, prima in Svizzera poi
negli Stati Uniti.
Rientra tre anni dopo , e placatisi
gli animi, egli viene riammesso in magistratura, dove perviene sino al
grado di Presidente di Cassazione.
Da quel momento inizia la sua attività
letteraria. La "Fisiologia del gusto " si rivela un ottimo lavoro di
uomo di buona cultura e di profondo spirito di osservazione ; con la stessa
incisività vi
si leggono
divagazioni sull'abbigliamento e sull'apparecchiare la tavola, come
sulla preparazione dell'anguilla e la cottura del rombo.
Ma è tutt'altro che un libro di
cucina; è un libro sulla filosofia della buona cucina.
L'Autore sarà stato senza dubbio un
goloso, ma era del pari, certamente, anche un esteta.
Si potrebbe esser sfiorati dal dubbio
che Brillat-Savarin sia morto di indigestione; no, egli muore di un banale
raffreddore trascurato che si è buscato ad una messa funebre.
A lui dunque, ed alla sua personalità
viene dedicato un dolce , a forma di ciambella, che ormai tutti chiamiamo
"savarin", forse senza neppure chiedersi perché. Concettualmente
però, non è un dolce nuovo, perché il suo impasto discende direttamente dal più
antico BABÀ, arricchito e guarnito.
Quindi di sfuggita accenniamo al BABÀ.
Babà è parola di origine turca, ed al di là del proprio significato letterale
di "padre", è attributo di considerazione che si esprime a persone di
grande rispetto.
Occasionalmente diremo che il capo più
occidentale dell'Anatolia è Capo Babà; ma questo non c'entra niente!
Orbene agli inizi del 1700, il re di
Polonia Stanislao I, aveva tra
i suoi cuochi un giovane pasticciere, proveniente dall 'Anatolia, di nome Kara,
che gli aveva inventato
e dedicato un dolce a forma conica, come il copricapo turco.
Dolce inzuppato e profumato , come
tutti i dolci anche parzialmente orientali. Quando Stanislao Leszczynski, nel
1735, venne spodestato dal suo trono, dovette
rifugiarsi nel piccolo Ducato di Lorena, dove riprese in tono minore la sua vita di corte. Qui il
babà veniva servito nei suoi
pranzi, qui era conosciuto e consumato e da qui esportato
verso Parigi.
Si inzuppava allora di sciroppo e di
cognac; l'uso di umettarlo con rum è assai più recente. Quanta parte di ciò sia
storia e quanta leggenda, non sapremmo precisare; siamo venuti a conoscenza di
queste notizie e le trasmettiamo in piena buona fede.
D'altra parte in cose ben più
importanti di queste, la leggenda entra a far parte della storia, con santa
pace per tutti.
IL BABA’: Tra storia e leggenda, dalla
musicalità della parola alla piacevolezza del palato
I napoletani hanno il pregio di dare, col loro dialetto, musicalità ad una frase, a un discorso. Il dialetto partenopeo è l’unico linguaggio regionale così adatto alla musica: le parole si accorciano e si allungano seguendo le note, si personalizzano facilmente, hanno mille significati a seconda del contesto in cui sono inserite. Questo vale anche per il cibo, la principale preoccupazione quotidiana con cui Napoli ha dovuto fare i conti dal ’600 a tutto il Dopoguerra, sino agli anni ’60, dal precapitalismo alla società postindustriale quando alla povertà si è passati al benessere tale da rendere disponibile più facilmente il cibo per la sopravvivenza fisica senza angoscia.
I napoletani hanno innumerevoli espressioni in cui il carattere è associato ad uno stato fisico più che mentale, alcune anche un po’ volgari ricche di sfumature la cui traduzione in italiano, a volte, non rende spesso esattamente l’idea di ciò che in realtà si vuole rappresentare. Ad esempio, “si nu’ babbà” detto ad una persona indica qualcuno dal carattere dolce, disponibile, oppure bravo nell’eseguire qualcosa di particolarmente difficile, o, ancora, si può usare per ringraziare di un regalo o di un’attenzione. Ma non solo una persona, anche una cosa può essere “nu’ babà”, magari un oggetto particolarmente bello e funzionante.
La parola babà ha,quindi, un significato estremamente positivo apprezzato in quanto capace di riflettere i pregi migliori: l’equilibrio dei sapori e di consistenza con cui si esprime questo dolce, la sua praticità e, al tempo stesso, l’estrema pazienza richiesta da ben tre lievitazioni nella ricetta classica.
Il babà è, a pieno titolo, un "dolce di città" perché necessita sapienza consolidata per prepararlo, una profonda conoscenza dei tempi di cottura, di lavorazione e di lievitazione rapportati alla temperatura esterna e all’umidità presente nell’aria, proprio come la pizza. È dolce da città perché da passeggio: si entra, si prende e si mangia continuando la passeggiata, con un piattino e forchetta o usando le mani e dunque, a dispetto delle sue origini,ed è molto "democratico", perché mette sullo stesso piano chi ozia e chi lavora, chi è ricco e chi è povero.
Eppure proprio come la pizza, la pasta, il caffè, il babà non è nato alle pendici del Vesuvio ma nel freddo Nord Europa e, mentre la stragrande maggioranza dei dolci nasce nella civiltà contadina, il babà è di origine reale, frutto di un’idea di Stanislao Leszczynski, due volte re di Polonia, duca di Lorena e suocero di luigi XV. Leggenda vuole che Stanislao, esule in Francia, trascorresse il suo tempo dilettandosi in cucina e apportando bizzarre varianti ai dolci, la sua passione, della tradizione austriaca, come il kugelopf, mezzo panettone e mezzo brioche, apportando nuove e più ricche elaborazioni con l’impasto lievitato tre volte e sbattuto per ottenere una pasta più leggera, dandogli la forma della cupola di Santa Sofia e il nome di Ali Babà, il protagonista de “Le Mille e una notte”. In origine era pieno d’uvetta di Corinto e di Smirne ed era di pasta gialla perché arricchito di zafferano.
Un altro salto di qualità è la decisione della bagna, necessaria per sostenere la morbidezza del dolce altrimenti destinato rapidamente a pietrificarsi in poche ore, con sciroppo di zucchero e il rhum giamaicano, l’ultimo, all'epoca, dei benefici importati dall’Oltreoceano.
Il dolce venne così introdotto a corte e, da qui, si diffuse successivamente in tutta Europa, benché la sua maggiore diffusione si ebbe, in primis, a Parigi. Qui fu introdotto, all’inizio dell’Ottocento, dal famoso cuoco e sublime pasticciere polacco Sthorer, a Luneville con un proprio laboratorio a rue Montorgueil, ancora oggi esistente al numero 52. Qui si creò il babà a forma di fungo o cappello di cuoco così come sono giunti fino a noi. Più tardi, Jean Anthelme Brillat-Savarin regala ai fratelli Julien il babà a forma di ciambella nel cui centro immergere la frutta per il loro laboratorio sul boulevard St.Honoré: eliminata l’uvetta, aggiunto il burro, una spennellata di marmellata di albicocche per salvare la bagna più a lungo ed è così che da Ali Babà si passa a Babà.
Il Babà è simbolo del filo diretto con cui Napoli è sempre stata legata a Parigi negli ultimi tre secoli. Un legame nato precisamente quando Maria Antonietta sposa Luigi XVI mentre Maria Carolina si lega a soli sedici anni nel 1768 per procura a Ferdinando IV di Borbone. Nasce così l’epopea del gattò, della besciamella, del gratin, degli sciu e di quei termini francesi con cui la cucina napoletana conosce l’influenza d’Oltralpe. Questo dolce impiegherà quasi settant’anni per arrivare a Napoli. Le prime attestazioni documentate risalgono all’inizio dell’Ottocento, in un ricettario misto di piatti francesi e napoletani. L’insediamento ufficiale è nel manuale dell’Angeletti, cuoco di Maria Luigia di Parma (1836). Per molto tempo resterà, quindi, un dolce delle cucine aristocratiche e solo dopo l’Unità d’Italia arriverà nelle pasticcerie, privato definitivamente di una componente (i canditi), aromatizzato e bagnato. Pare che i grandi signori napoletani, infatti, sin dalla fine dell’Ottocento, spedissero i loro cuochi a Parigi, per erudirli sulle haute cuisine. E probabilmente fu proprio uno di questi cuochi che importò il babà a Napoli, conferendogli quella forma e determinando quelle particolari dosi di sciroppo e liquore che hanno fatto di questo dolce un prodotto caratteristico della pasticceria partenopea.
L’ultima moda è il babà al limoncello o alla crema di limone, nato a Capri, un infuso capace di prendere il posto rapidamente del rhum e di aprire così la disputa fra tradizionalisti e innovatori, valorizzando l’agrumato, la necessaria acidità per equilibrare ulteriormente nel babà la sensazione di dolce, a volte zuccherosa quando il rhum è di qualità scadente. Ecco allora la freschezza regalata dagli agrumi e, nel caso del limoncello, dagli oli essenziali della buccia del limone. Una nuova formula anche per il rilancio del dolce...
I napoletani hanno il pregio di dare, col loro dialetto, musicalità ad una frase, a un discorso. Il dialetto partenopeo è l’unico linguaggio regionale così adatto alla musica: le parole si accorciano e si allungano seguendo le note, si personalizzano facilmente, hanno mille significati a seconda del contesto in cui sono inserite. Questo vale anche per il cibo, la principale preoccupazione quotidiana con cui Napoli ha dovuto fare i conti dal ’600 a tutto il Dopoguerra, sino agli anni ’60, dal precapitalismo alla società postindustriale quando alla povertà si è passati al benessere tale da rendere disponibile più facilmente il cibo per la sopravvivenza fisica senza angoscia.
I napoletani hanno innumerevoli espressioni in cui il carattere è associato ad uno stato fisico più che mentale, alcune anche un po’ volgari ricche di sfumature la cui traduzione in italiano, a volte, non rende spesso esattamente l’idea di ciò che in realtà si vuole rappresentare. Ad esempio, “si nu’ babbà” detto ad una persona indica qualcuno dal carattere dolce, disponibile, oppure bravo nell’eseguire qualcosa di particolarmente difficile, o, ancora, si può usare per ringraziare di un regalo o di un’attenzione. Ma non solo una persona, anche una cosa può essere “nu’ babà”, magari un oggetto particolarmente bello e funzionante.
La parola babà ha,quindi, un significato estremamente positivo apprezzato in quanto capace di riflettere i pregi migliori: l’equilibrio dei sapori e di consistenza con cui si esprime questo dolce, la sua praticità e, al tempo stesso, l’estrema pazienza richiesta da ben tre lievitazioni nella ricetta classica.
Il babà è, a pieno titolo, un "dolce di città" perché necessita sapienza consolidata per prepararlo, una profonda conoscenza dei tempi di cottura, di lavorazione e di lievitazione rapportati alla temperatura esterna e all’umidità presente nell’aria, proprio come la pizza. È dolce da città perché da passeggio: si entra, si prende e si mangia continuando la passeggiata, con un piattino e forchetta o usando le mani e dunque, a dispetto delle sue origini,ed è molto "democratico", perché mette sullo stesso piano chi ozia e chi lavora, chi è ricco e chi è povero.
Eppure proprio come la pizza, la pasta, il caffè, il babà non è nato alle pendici del Vesuvio ma nel freddo Nord Europa e, mentre la stragrande maggioranza dei dolci nasce nella civiltà contadina, il babà è di origine reale, frutto di un’idea di Stanislao Leszczynski, due volte re di Polonia, duca di Lorena e suocero di luigi XV. Leggenda vuole che Stanislao, esule in Francia, trascorresse il suo tempo dilettandosi in cucina e apportando bizzarre varianti ai dolci, la sua passione, della tradizione austriaca, come il kugelopf, mezzo panettone e mezzo brioche, apportando nuove e più ricche elaborazioni con l’impasto lievitato tre volte e sbattuto per ottenere una pasta più leggera, dandogli la forma della cupola di Santa Sofia e il nome di Ali Babà, il protagonista de “Le Mille e una notte”. In origine era pieno d’uvetta di Corinto e di Smirne ed era di pasta gialla perché arricchito di zafferano.
Un altro salto di qualità è la decisione della bagna, necessaria per sostenere la morbidezza del dolce altrimenti destinato rapidamente a pietrificarsi in poche ore, con sciroppo di zucchero e il rhum giamaicano, l’ultimo, all'epoca, dei benefici importati dall’Oltreoceano.
Il dolce venne così introdotto a corte e, da qui, si diffuse successivamente in tutta Europa, benché la sua maggiore diffusione si ebbe, in primis, a Parigi. Qui fu introdotto, all’inizio dell’Ottocento, dal famoso cuoco e sublime pasticciere polacco Sthorer, a Luneville con un proprio laboratorio a rue Montorgueil, ancora oggi esistente al numero 52. Qui si creò il babà a forma di fungo o cappello di cuoco così come sono giunti fino a noi. Più tardi, Jean Anthelme Brillat-Savarin regala ai fratelli Julien il babà a forma di ciambella nel cui centro immergere la frutta per il loro laboratorio sul boulevard St.Honoré: eliminata l’uvetta, aggiunto il burro, una spennellata di marmellata di albicocche per salvare la bagna più a lungo ed è così che da Ali Babà si passa a Babà.
Il Babà è simbolo del filo diretto con cui Napoli è sempre stata legata a Parigi negli ultimi tre secoli. Un legame nato precisamente quando Maria Antonietta sposa Luigi XVI mentre Maria Carolina si lega a soli sedici anni nel 1768 per procura a Ferdinando IV di Borbone. Nasce così l’epopea del gattò, della besciamella, del gratin, degli sciu e di quei termini francesi con cui la cucina napoletana conosce l’influenza d’Oltralpe. Questo dolce impiegherà quasi settant’anni per arrivare a Napoli. Le prime attestazioni documentate risalgono all’inizio dell’Ottocento, in un ricettario misto di piatti francesi e napoletani. L’insediamento ufficiale è nel manuale dell’Angeletti, cuoco di Maria Luigia di Parma (1836). Per molto tempo resterà, quindi, un dolce delle cucine aristocratiche e solo dopo l’Unità d’Italia arriverà nelle pasticcerie, privato definitivamente di una componente (i canditi), aromatizzato e bagnato. Pare che i grandi signori napoletani, infatti, sin dalla fine dell’Ottocento, spedissero i loro cuochi a Parigi, per erudirli sulle haute cuisine. E probabilmente fu proprio uno di questi cuochi che importò il babà a Napoli, conferendogli quella forma e determinando quelle particolari dosi di sciroppo e liquore che hanno fatto di questo dolce un prodotto caratteristico della pasticceria partenopea.
L’ultima moda è il babà al limoncello o alla crema di limone, nato a Capri, un infuso capace di prendere il posto rapidamente del rhum e di aprire così la disputa fra tradizionalisti e innovatori, valorizzando l’agrumato, la necessaria acidità per equilibrare ulteriormente nel babà la sensazione di dolce, a volte zuccherosa quando il rhum è di qualità scadente. Ecco allora la freschezza regalata dagli agrumi e, nel caso del limoncello, dagli oli essenziali della buccia del limone. Una nuova formula anche per il rilancio del dolce...
E non poteva mancare la poesia in dialetto partenopeo
'O babà
Primma ‘e Natale giravano accussì pe’ Napule,
San Giuseppe ‘a Madonna e ‘o Bammeniello,
doppo magnato ‘a cantina, pasta e fasule
cu quatte cape ‘e sasicce e cu ‘e friarielle...
se vuttajeno ‘e spicce ‘e spicce dint’‘a na pasticceria
“Peppì tu ‘o ssaje pe' chisti dolce io, jesco impazzì,
spicialmente p’‘a pasticceria napulitana...è na fantasia
tu piglià chello che vuò j' assaggio stu babà!Me fà murì!
Peppì passame nu sarvietto me stò spurcanno
chistu babà è chino‘e ruhm…stà scurrenno,
e comm’ è sapurito ‘e ddete me stò alleccanno!
“ Marì ma che faje ‘a ggente te stà guardanno!”
E cche me ne ‘mporta chistu sfizio m’ha dda passà
so’ duimila anne sempe ‘e stessi ccose...uffà!
Peppì Peppì… nun veco ‘o Bammeniello addò stà?
“Marì stà llà, se stà magnanno pur’Isso nu babà!”
Peppì chist’anno ‘e Rre Magi , saje che te voglio dì?
‘o posto ‘e purtà : Oro,‘ncienzo e birra...(‘a mirra Marì!)
‘e facimmo purtà nu paro ‘e guantiere ‘e chisti babà…
p’‘a Madonna tutto ‘o Presepio avimma fà cunzulà!
Primma ‘e Natale giravano accussì pe’ Napule,
San Giuseppe ‘a Madonna e ‘o Bammeniello,
doppo magnato ‘a cantina, pasta e fasule
cu quatte cape ‘e sasicce e cu ‘e friarielle...
se vuttajeno ‘e spicce ‘e spicce dint’‘a na pasticceria
“Peppì tu ‘o ssaje pe' chisti dolce io, jesco impazzì,
spicialmente p’‘a pasticceria napulitana...è na fantasia
tu piglià chello che vuò j' assaggio stu babà!Me fà murì!
Peppì passame nu sarvietto me stò spurcanno
chistu babà è chino‘e ruhm…stà scurrenno,
e comm’ è sapurito ‘e ddete me stò alleccanno!
“ Marì ma che faje ‘a ggente te stà guardanno!”
E cche me ne ‘mporta chistu sfizio m’ha dda passà
so’ duimila anne sempe ‘e stessi ccose...uffà!
Peppì Peppì… nun veco ‘o Bammeniello addò stà?
“Marì stà llà, se stà magnanno pur’Isso nu babà!”
Peppì chist’anno ‘e Rre Magi , saje che te voglio dì?
‘o posto ‘e purtà : Oro,‘ncienzo e birra...(‘a mirra Marì!)
‘e facimmo purtà nu paro ‘e guantiere ‘e chisti babà…
p’‘a Madonna tutto ‘o Presepio avimma fà cunzulà!
La pastiera napoletana
RICETTA BASE:
Ingredienti
per due teglie da 30 cm circa:
ü ricotta 1
kg.;
ü grano
per pastiera 1 kg (2 barattoli da 600 gr. purificati dell'amido);
ü zucchero
900 gr.;
ü uova
10;
ü miele
d’arancia o millefiori 100 gr.;
ü canditi
a cubetti (cedro e arancia) 150 gr.;
ü 2/3
fiale di millefiori + 2 bacche di vaniglia;
Setacciare la ricotta dopo averla zuccherata (anche col miele),
incorporare le uova, il grano (dopo averlo liberato dell'amido in eccesso
attraverso un veloce risciacquo) e gli aromi, amalgamare con cura.
Imburrare per bene una teglia (alta almeno 5 cm) e rivestirla con uno
strato di pasta frolla dello spessore di circa ½ cm. Versarvi il composto.
Guarnire con strisce di pasta frolla disposte a losanga. Cuocere a forno ben
caldo (180°) adagiando la teglia della pastiera in un tegame da forno. La
cottura verrà ultimata col grill superiore per dare una piacevole doratura alla
pastiera. Lasciare riposare, conservare al fresco ma non in frigo. Preferire il
forno a gas o al massimo un elettrico ma senza ventilazione.
Come
già detto rappresenta un vero punto di forza della pasticceria napoletana. Si
tratta di una dolce da forno composto da un guscio di pasta frolla che
raccoglie un composto di ricotta, uova zucchero, e grano bollito. L'aroma che
caratterizza la pastiera è il millefiori in fiala. Ma contribuiscono anche i
canditi (arancia e cedro) e la vaniglia. Anche per la pastiera si registrano
numerosissime ricette a seconda della diversa proporzione fra i vari
ingredienti, ed in taluni casi anche per la loro lavorazione. Taluni usano
frullare il grano, altri montano le uova o il bianco. Esistono anche versioni
che prevedono l'uso della crema pasticciera. In tutti i casi la pastiera deve
presentare una caratteristica, a mio giudizio essenziale, ossia non deve essere
"asciutta", o peggio ancora "secca". Anche perché, la
pastiera, essendo un dolce molto strutturato, darà il meglio di se, in termini
di aromi ed equilibri, dopo uno/due giorni dalla sua preparazione, periodo
durante il quale essa perde inevitabilmente parte della sua umidità iniziale.
Per evitare la sgradevole sensazione di asciutto, è indispensabile disporre di
una ricetta molto ben bilanciata (un piccolo accorgimento consiste nel
sostituire il 10 % dello zucchero con del miele millefiori), ma è altrettanto
importante avere la massima cura nella fase di cottura. La temperatura del
forno deve garantire, ovviamente la perfetta cottura, ma il prodotto deve
conservare al suo interno una certa umidità, inoltre la pastiera deve
presentare un' invitante colorazione tendente al nocciola (per le losanghe di
pasta frolla) e marrone lucido per il resto. La temperatura di cottura standard
indicata è pari a 180°, ma dal momento che ogni forno è un mondo a sé, ciascun
operatore avrà cura di individuare la condizione ottimale.
RICETTARIO AGGIUNTIVO
PASTA FROLLA
Per sfogliatelle frolle:
·
farina 00 1 kg
·
strutto 400 g
·
acqua 150 g
·
uova 2 pezzi
·
miele 20 g
Pasta frolla salata "vegana"
(senza uova né latticini)
·
600 g farina 00
·
100 g farina ceci
·
150 g olio
·
200-250 g acqua
·
5 g lecitina soia
·
80 g destrosio
·
15 g sale
·
10 g lievito
Impastare
le farine col lievito e la lecitina aggiungendo l'acqua poco per volte. Poi
aggiungere sale e destrosio, quindi l'olio.
BABA':
babà 1
·
farina 180 g
·
burro 125 g
·
lievito di birra 20 g
·
zucchero 1 cucchiaio
·
sale 1 pizzico
·
panna liquida 50 g (da incorporare dopo il burro)
·
uova n° 3
babà 2 (P. Fulgente)
·
farina 1000 g
·
burro 300/350 g
·
lievito di birra 50 g
·
zucchero 80 g
·
sale 20 g
·
uova intere (18-20 pezzi) 1000 g
babà 3 (A. Cafiero)
·
farina "0" 250 g
·
burro 80 g
·
lievito di birra 20 g
·
zucchero 25 g
·
sale 1 pizzico
·
uova intere n° 5
babà 4 rustico
·
Farina manitoba 500 gr
·
uova 450 gr
·
zucchero 50 gr
·
lievito di birra 40 gr
·
burro 200 gr
·
sale 10 gr + pepe 3 gr
·
grana grattugiato 40 gr
·
pecorino grattugiato 20 gr
·
prosciutto cotto a cubetti 300 gr
·
pancetta (a fette poi tagliata piccola) 100 gr
·
mortadella (come pancetta) 100 gr
(Lavorazione
identica al babà classico, i salumi vanno aggiunti alla fine)
PASTIERA:
pastiera 1 (P. Fulgente)
ü ricotta 1,5
kg.;
ü grano
per pastiera precotto 750 gr (latte l1,2 burro 30 gr scorza di limone e ed
arancia. Mettere a bollire tutto quanto il giorno prima, fino a quando il
composto non diventi cremoso);
ü zucchero
1000 gr.;
ü Tuorli
300 gr;
ü miele
d’arancia o millefiori 100 gr.;
ü canditi
a cubetti (cedro e arancia) 150 gr.;
ü 2/3
fiale di millefiori + 2 bacche di vaniglia + cannella;
pastiera 2 (A. Cafiero)
ü ricotta 500
gr.;
ü grano
per pastiera precotto 250 gr;
ü zucchero
400 gr.;
ü uova
n° 6;
ü burro
50 gr
ü latte
5 dl.;
ü canditi
a cubetti (cedro e arancia) 200 gr.;
ü 1/2
fiale di millefiori + 2 bacche di vaniglia + cannella;
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